Tra sette giorni sapremo, finalmente, come andrà a finire. Domenica 24 e lunedì 25 febbraio si concluderà una delle più strane campagne elettorali della storia del nostro Paese e gli elettori decideranno la composizione del nuovo Parlamento, che dovrà durare – salvo imprevisti – per i prossimi cinque anni.
Come tutti sanno, la sfida è allargata come mai prima d’ora. Le formazioni che si presentano al voto con la concreta possibilità di eleggere dei parlamentari sono ben sei: la coalizione di centrosinistra “Italia Bene Comune” guidata da Pierluigi Bersani (e comprendente PD, Sel, Centro Democratico e Psi) è quella con le maggiori chances di vittoria, perlomeno stando ai sondaggi diffusi sino a dieci giorni fa, quando per legge è scattato il divieto di pubblicarli. La furiosa rimonta di Berlusconi pare essersi bloccata e la sua coalizione è quanto mai eterogenea: ci sono PDL e Lega Nord, ma c’è anche La Destra di Storace, e i dissidenti ex PDL (ora “Fratelli d’Italia”) e infine una serie di sigle minuscole, dai Pensionati a Intesa Popolare, tutte liste senza possibilità di eleggere rappresentanti ma utili a portare voti al fronte berlusconiano. Tutti insieme, sempre secondo i sondaggi, hanno ridotto il distacco dalla coalizione di Bersani fino a circa 5 punti percentuali. Difficile che andranno oltre, visto che gli indecisi sono andati progressivamente riducendosi e che l’offerta partitica è molto più ampia che in passato. Le novità sono essenzialmente due: la coalizione messa insieme dal premier uscente Mario Monti, che comprende la sua lista civica, UDC e FLI e che conquisterà una larga parte del voto moderato in uscita dal PDL; e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che potrebbe diventare addirittura il secondo partito (dopo il PD) approfittando del forte clima di insofferenza contro la classe politica che ha prodotto – direttamente o indirettamente – gli scandali di cui si è letto sui giornali nelle scorse settimane (Monte dei Paschi, Finmeccanica, ecc). A sinistra, la lista Rivoluzione Civile, con a capo l’ex pm palermitano Antonio Ingroia, fa da contenitore di una serie di liste che non hanno trovato asilo nella coalizione di centrosinistra, e che si sono unite sotto un nuovo simbolo per superare la soglia di sbarramento del 4%: Rifondazione Comunista, Italia dei Valori, Comunisti italiani e Verdi, più alcuni esponenti del cosiddetto movimento arancione che ha tra i suoi ispiratori il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Sotto la soglia, ma segnalata in recupero, la lista Fare per Fermare il declino guidata dall’eccentrico giornalista economico Oscar Giannino, il cui programma radicalmente liberista ha turbato i sogni di Berlusconi, che ha accusato Giannino e soci di togliere voti al centrodestra in regioni chiave come la Lombardia.
Già, le regioni chiave: come si sa, per ottenere la maggioranza in Senato è necessario arrivare primi in quasi tutte le regioni, o comunque le più grandi che mettono in palio il numero maggiore di senatori. La Lombardia quindi, come detto, ma anche il Veneto e regioni del Sud come la Sicilia e la stessa Campania (seconda regione più popolosa d’Italia). Se Bersani vuole avere la certezza di una solida maggioranza parlamentare dovrà vincere in tutte queste regioni, o perderne al massimo una. Le possibilità ci sono, ma tutto è ancora piuttosto incerto. Come accadde nel 2006, vincere al Senato in Campania potrebbe significare, per il centrosinistra, la certezza matematica di ottenere la maggioranza, e quindi formare un governo. Bersani lo sa, e anche per questo ha deciso di essere a Napoli giovedì 21, a piazza del Plebiscito, per una manifestazione che si preannuncia imponente.