L’alternativa possibile è necessaria

Le questioni con cui l’opposizione deve fare i conti per proporsi come alternativa

Tante volte – troppe – abbiamo sentito risuonare, nei tg e nei talk show, la seguente frase: “Non esiste un’alternativa credibile a questo governo”. Pronunciata, ovviamente, da esponenti del centrodestra, in risposta a chi si domanda se non sia il caso che il governo faccia un passo indietro, visti i pessimi risultati. Riflettiamo per un attimo sul significato delle parole: se è vero che non esiste un’alternativa credibile alla fazione attualmente maggioranza di governo, vuol dire che quest’ultima è invece pienamente credibile, oltre che legittimata dal voto.

Ma quali sono i criteri per stabilire se un’alternativa politica sia credibile o meno? Chi volesse candidarsi a governare un Paese (o anche una amministrazione locale) non può fare a meno di tre cose: una coalizione; un leader; un programma.

L’ultimo requisito è forse il più importante: a che serve infatti vincere una qualsivoglia elezione se non si hanno le idee chiare sul cosa fare una volta vinte? Su questo punto, proprio il centrosinistra può ben dire di avere fatto tutte le esperienze possibili. Alla vigilia delle elezioni politiche del 2006, di fronte all’accusa di aver raccolto intorno a Prodi una coalizione troppo eterogenea, avente come unico comune denominatore l’antiberlusconismo, la risposta fu di presentare un programma elettorale titanico (quasi 400 pagine); a quel punto, le accuse di sterile antiberlusconismo cedettero il passo a quelle – peraltro ben meritate – di incapacità comunicativa. Ma il problema, per il governo Prodi, non fu tanto il programma, quanto coloro che dovevano attuarlo.

Nel 2008 Veltroni ci riprovò, cambiando radicalmente la formula: una coalizione ridotta al minimo (composta da PD e IDV) e un programma elettorale “light”, contenente più slogan che proposte di soluzione ai complessi problemi del Paese. Ma anche lì, l’aver scelto come unico alleato Di Pietro non risparmiò ai democratici l’accusa di avere come unico carattere distintivo l’antiberlusconismo.

La questione del programma infatti si intreccia con il problema dell’identità di un partito. Uno dei maggiori problemi del PD, ad oggi, è la sua identità incerta. Il paragidma fondativo, teso ad includere e rappresentare tutte le culture progressiste e riformiste al di là delle differenze di ciascuna (e declinato dall’allora segretario Veltroni con la poco fortunata formula del “ma anche”) ebbe un contro-effetto deleterio: cercando di rappresentare un po’ tutti, il PD ha ottenuto, agli occhi dei suoi elettori, di non rappresentare quasi nessuno.

Ecco perché oggi la questione delle proposte programmatiche è affrontata con particolare attenzione dai dirigenti democratici. Da tempo le direzioni nazionali che si sono succedute hanno affrontato vari punti, elaborando posizioni comuni anche in risposta alle contingenze sociali ed economiche (crisi finanziaria, disoccupazione) che man mano sono emerse.

Ma nell’ultimo anno la situazione politica è precipitata: alla fuoriuscita dei “finiani” dalla compagine di centrodestra ha fatto seguito un indebolimento del governo, sia per la fragilità della nuova maggioranza parlamentare che per le tensioni (divenute fortissime in estate) tra il ministro Tremonti e il PDL, e quelle tra i massimi dirigenti della Lega Nord (in primis, Bossi) e una parte sempre più consistente della sua base. La pressione dettata dalle notizie sullo stato di salute sempre più preoccupante della nostra economia, le incerte e contraddittorie risposte del governo (con l’apice raggiunto in agosto) hanno dato un colpo fatale al consenso di cui godeva il governo Berlusconi e il centrodestra nel suo complesso. La crisi del consenso fu confermata dalle elezioni amministrative di fine maggio e dai successivi referendum, e si è consolidata ulteriormente nei mesi successivi.

Tutto ciò ha messo le opposizioni – e il centrosinistra in particolare – nella scomoda posizione di doversi proporre il prima possibile come una valida alternativa in caso di scioglimento anticipato delle Camere e successive elezioni. Ma dei tre requisiti di cui abbiamo già detto, ben due rimangono ancora (inspiegabilmente) indefiniti: non solo non si sa ancora chi si candiderà a concorrere per il ruolo di Presidente del Consiglio, ma nemmeno è chiaro quali saranno i contorni della coalizione elettorale di centrosinistra. Mentre infatti il terzo polo si dà ogni giorno di più una connotazione indipendente, dichiarando per bocca dei suoi esponenti di non volersi alleare né con l’asse Berlusconi-Lega né con il PD e i suoi storici alleati, continuano imperterriti i corteggiamenti di esponenti sia democratici che berlusconiani all’UDC di Casini. Nessuno sembra rendersi conto che quest’ultimo ha tutto l’interesse a conservare il suo potere contrattuale fino a dopo le elezioni, quando cioè si renderà necessario l’appoggio del terzo polo per la formazione di qualsivoglia governo, pena il mancato ottenimento della fiducia in Senato.

È vero che i vertici democratici non sono rimasti immobili: prima, il segretario Bersani ha ribadito l’alleanza con l’IDV e con SEL di Nichi Vendola in un incontro a Vasto – pur senza escludere ulteriori alleanze, il che però non chiarisce se dell’alleanza dovranno far parte anche piccoli partiti come il PSI e i Verdi (con i Radicali, dopo le ultime vicende burrascose, sembra non vi sia più possibilità di accordo); poi, nelle settimane seguenti, è stato pubblicato e diffuso un compendioso volumetto di 68 pagine, “L’Italia di domani – le proposte del Partito Democratico”, una possibile e valida piattaforma di partenza per il programma elettorale.

La questione della leadership rimane la più spinosa: oltre alle già annunciate candidature di Vendola e Di Pietro alle primarie, Bersani dovrà probabilmente affrontare anche le velleità di esponenti interni dello stesso PD: a cominciare dal sindaco di Firenze, il “rottamatore” Matteo Renzi. Velleità che però avrebbero bisogno della revisione di una ben precisa norma dello statuto che impedisce candidature ulteriori a quella del segretario nazionale alla carica di Presidente del Consiglio; e quindi di un confronto in seno all’Assemblea nazionale del partito, per il quale sembra non esserci proprio tempo.

Anche per questo da più parti si tende a tirare il freno a mano, a cercare di convincere (e di convincersi) che la soluzione migliore, in caso di caduta del governo, non sarebbe una nuova e immediata chiamata alle urne bensì un governo di transizione “con chi ci sta” per fare le immancabili “riforme necessarie”.

Nei prossimi mesi, al PD spetta il compito di porsi come alternativa quanto più chiara possibile agli occhi degli elettori, che in stragrande maggioranza hanno perso qualsiasi fiducia nelle capacità di governo di Berlusconi. Il punto da cui partire è proprio la discussione preliminare sulle proposte programmatiche, sia quelle pubblicate dal PD sia quelle che proverranno dagli alleati già “sicuri”. Una volta stabilite queste, avviare un confronto (possibilmente pubblico) con tutti quegli esponenti dei partiti con cui è possibile un’alleanza: anche i membri del terzo polo, se lo vorranno, ma soprattutto Verdi e socialisti, e possibilmente associazioni civiche – ad esempio Libertà e Giustizia.

Il passo successivo devono essere le primarie: ma queste non devono restringersi alla scelta del candidato premier. Infatti, poiché è del tutto evidente che in caso di elezioni nel 2012 si voterà ancora una volta con le liste bloccate, il PD deve dare la possibilità ai suoi elettori di scegliere con il proprio voto la composizione delle sue liste – e magari spingere a fare lo stesso anche gli altri soggetti della coalizione. Se tutte queste cose verranno realizzate all’insegna della trasparenza e della pubblicità del confronto, il PD e il centrosinistra hanno tutte le carte in regola per proporsi come alternativa credibile e in grado di dare soluzioni a un Paese che sembra rassegnato al proprio declino.

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